Quest’anno l’occasione non me la
posso lasciare scappare. Sono libero, non mi sono impegnato in cene
varie o cose simili: mi sono tenuto libero sperando nel meteo e di
trovare qualcuno. Ma se anche non trovo nessuno e il resto delle
stelle è ben allineato, sono deciso ad andare anche da solo. Ultimo
e primo dell’anno voglio farli in montagna, in modo alpinistico: è
l’anno buono.
Il meteo c’è, la meta la trovo
grazie a un amico che settimane fa l’ha percorsa, la compagnia
arriva ormai insperata a una decina di giorni prima dell’evento: Riccardo. Altri due ci
abbandonano, e perciò siamo noi a tentare questa sorta di idea folle
quanto geniale. La meta viene confermata essere il Canale Est del
Care Alto (montagna già tentata anni fa con Marco),
nonostante l’esperienza di pochi giorni fa in Presanella che mi ha fatto ben abbassare le orecchie.
Con calma (troppa?) entriamo nella
fredda e ombreggiata Val Borzago, fino a un ruscello semighiacciato
che interrompe la strada poco prima di Pian della Sega: si parcheggia
e ci si cambia al freddo, si spartiscono le ultime cose tra gli zaini
e.. oh issa! Quanto peseranno i nostri zaini?! 15kg? 18kg? Di più
spero di no, altrimenti siamo dei muli da soma! In ogni caso, degli
asini da montagna, lo siamo.
La cima agognata si vede già, ma
quanto è lontana. Meglio non pensarci, non far caso alle spalle che
già gridano vendetta, e pensare solo a mettere un passo davanti
all’altro, nella speranza di arrivare presto al sole per due
motivi: innanzi tutto un po’ di tepore, e secondo vuol dire che
siamo prossimi al Rifugio Care Alto. Beh, terzo perché ci siam promessi che mangeremo e
berremo solo allora.
Ricordo una salita lunga, noiosa,
monotona. E infatti. Solo qualche risata tra amici allieta questa
sofferenza: sofferenza che se sommata al mangiare non proprio bene,
al freddo, viene naturale chiedersi “ma chi te lo fa fare?”. Non
si può spiegare.
I metri di dislivello preferisco non
pensarli. Guardiamo l’unica cosa carina che possiamo osservare: dei
flussi ghiacciati. E su uno di questi c’è una cordata (che si
cala? mah), e risolviamo una delle auto al parcheggio, ma ne restano
due: la paura di trovare il bivacco affollato è tanta.
Il ponte dello Zucal presenta
un’insidiosa uscita su cumuli di ghiaccio, due ragazzi davanti a
noi faticano a venirne fuori. Poco dopo sorpasseremo Mattia e Andrea,
che ci dicono avere le nostre stesse identiche intenzioni. Rimane
un’auto all’appello. Più su anche lei scioglierà il mistero: è
un escursionista che sta scendendo.
Altro ghiaccio che obbliga a muoversi
di lato al sentiero e quasi arrampicare, poi traversone al sole sulla
neve, dove “semino” il mio amico perché ho troppa voglia di
tepore, di mangiare e di bere. Vedo il rifugio, lassù: uguale
all’altra volta, sembra a due passi e invece è lontanissimo. Ma
già dalla partenza si vedeva, ma tranquillo Ricky, abbiamo fatto di
peggio (Mishabelhutte) e
faremo di peggio!
Su una dorsale mi fermo a mangiare e
bere aspettando il mio amico: non lo so, ma ho perso le tracce del
sentiero vero seguendo delle vaghe che andavano troppo a sinistra.
Infatti dopo questa pausa saremo costretti a inerpicarci su una
dorsale che poi diventa pendio, tra rocce, neve, erba, buchi
nascosti. Un piccolo calvario per arrivare al rifugio.
Finalmente dopo 3h30 ci siamo. Prima
operazione, portare su gli zaini: cosa non facile, la scala con
gabbia con protezione alla schiena non concede di salire con lo
zaino. Il menhir-zaino deve essere issato. Seconda operazione,
preparare il letto e imbandire il tavolo. Terza, scendere e mettere
le gavette a raccogliere l’acqua di fusione che scende dal tetto.
Quarta, andare in esplorazione.
Emanuele mi ha detto di fare un lungo
giro verso sinistra e solo tardi risalire, cosa poco intuitiva ma a
detta sua molto comoda. Mattia, e la vista della nostra meta dritta a
noi, dicono di tirare su dritto in mezzo ai massi semisepolti.
Partiamo seguendo le indicazioni di Emanuele, ma troppe e deboli
tracce non ci fanno capire una mazza e alla fine puntiamo il Care
Alto e buonanotte.
Un po’ si sfonda, un po’ si tiene,
ci avviciniamo alla cresta, ecco i segni del sentiero per la Bocca
del Cannone. Riccardo si ferma a guardare da vicino il granito e
arrampicarlo, io continuo poche decine di metri. Vai a caga, facciam
poi domani, andiamo al “caldo” a farci da mangiare.
Al rifugio accendiamo i fornelli (ne
abbiamo presi due apposta per fare di più) alle 16e30 e li spegniamo
alle 20e30 per fare non so quanti litri di acqua e cucinare. A
ingegnarsi su come fare un imbuto per versare l’acqua nelle
bottiglie, a filtrarla. Il tramonto sul Brenta scema senza quasi che
ce ne accorgiamo.
Gran cenone di capodanno, il menu è
cosi composto:
- Pasta e fagioli (liofilizzata)
- Riso con funghi di almeno un anno e
mezzo fa (liofilizzato)
- zuppa di verdure e cereali arricchita
(liofilizzata) con fagioli in scatola
- prosecchino da 375ml da dividere
- fetta del porco-pandoro (all’interno
cioccolato e crema) che era per la colazione di domani
Il tutto a lume di frontale. Bon
appettit!
Finita la pappa, finita l’operazione
scioglimento neve, laviamo il lavabile, ultimi preparativi, pipì.
Riccardo se ne sta fuori a fare qualche foto alla splendida stellata
che ci culla e coccola in questa notte vissuta molto diversamente
dalle altre persone. Sbeffeggiamo il salto tra il 2016 e il 2017
infilandoci a letto alle 21, molto più tardi di quello che avrei
pensato.
Sono le 4, sveglia. Dei due ragazzi che
sono qui con noi, Andrea aveva già deciso di non proseguire oggi;
Mattia, al suo terzo tentativo alla salita del Care Alto, e sempre
dal Canale Est, viene con noi. The caldo, finiamo il porco-pandoro
perché di portare del peso a valle che sia cibo non ne abbiamo
intenzione, e poco dopo le 5 si parte. Prima salita dell’anno, come
andrà?
Intanto va che la traccia di ieri mi
pare la perdiamo presto. Si finisce a ravanare in mezzo ai sassi,
lontano dalla cresta, passando da bella neve portante dove i ramponi
mordono che è un piacere, a neve sfondosa dove i ramponi soffocano
sotto la neve (o si spezzano i denti sulle rocce sotto). Proseguiamo,
ma puntiamo a salire verso la cresta. Si trova qualche segno
affiorante dalla neve e lo si segue.
Ci vorrà 1h30min per arrivare al
cannone, con le prime deboli luci che accendono l’orizzonte. La
prima alba dell’anno è uno spettacolo: a parte la location, la
neve pronta a riflettere tutte le tonalità che la colpiranno, si
vede distintamente anche l’Appennino, e proprio dove deve sorgere
il sole c’è qualche nuvolaglia pronta a rendere i colori ancora
più vivi.
E noi, anime erranti, qui da sole a
goderci questo spettacolo, ad assaporare questi momenti, a puntare
alla soddisfazione della vetta, a sperare che la Montagna sia con noi
mansueta e amica.
Poco prima di mettere il naso a fianco
alla Vedretta di Conca, una pausa per bere e mangiare qualcosa. E io
per prendermi una bella ramponata sullo stinco dal mio “amico”
che arretra prima che io gli abbia chiuso lo zaino che conserva sulle
sue spalle. La Presanella è
la davanti Giorgio tranquillo,
che quest’estate ci prendiamo la rivincita.
Ci siamo tenuti sulla dorsale, ora
scendiamo brevemente per poi risalire un bel pendio ripido che mi fa
temere il grosso lastrone: meglio stare molto a destra, vicino alle
rocce, anche per evitare i crepacci che a breve si intuiranno. Il
sole esce allo scoperto, e la luce sulla neve è il colore della
tenerezza.
Usciti dal pendio, bello ripidino, non
ci leghiamo: tutto sembra bello coperto e piatto, e ce ne staremo sul
lato destro vicino alle rocce. Anche la terminale è bella tappata da
un conoide nevoso. Dai che la frizzantezza della cima pare vicina. Ma
presto per cantare vittori, la neve di nuovo gioca con la nostre
sorte: un po’ dura, un po’ molle, avanzare è tutt’altro che
esente da fatica.
Alle 8e30 siamo alla base del conoide
sotto al canale, le picche sono in mano già da un po’ e possiamo
quindi salire di corsa per evitare che il sole caldo faccia il
solletico agli accumuli che potrebbero esserci. Di corsa sarebbe
bello, ma la neve non lo permette.
La prima parte è goduriosa, quasi
quick quick, una gioia esser davanti a Mattia e Riccardo per poter
calcare per primo questa materia bianca che tanto ci attira. Mi fermo
spesso sia per prendere fiato, ma anche per guardare su, giù, a
destra, a sinistra. Un bel canale in mezzo a queste rocce me lo sogno
da tempo.
La seconda parte fa cagare. Si riesce a
salire, ma 50°/55° così non sono spassosi. Vedo l’uscita, ma non
arriva: non mi spiace nemmeno troppo all’inizio, così mi godo a
lungo il luogo e l’attività che sto vivendo. Poi però basta, non
posso addormentarmi qui, dai c’andom!
Niente cornici in uscita, o meglio una
c’è ma è evitabile facilmente (oddio, passare da 70° a 0° non è
proprio banale), ma un vento gelido che rompe le balle. Non posso
aspettare i miei compagni d’avventura qui e così, la vetta è a
30m, vado la e mi vesto. Una bella arrampicata di lame, ed ecco la
croce.
Prima cima dell’anno, primi panorami
dell’anno, primo libro di vetta. E primo vento gelido che non te la
fa godere! Subito la giacca o muoio aspettando qui due.
Foto di rito, ma è presto per
festeggiare: scendere la canale di sinistra (faccia a monte) non ci
pare il caso, quindi optiamo di comune accordo per scendere da dove
siamo saliti. E non sarà comodissimo, perché con questa neve che da
poca fiducia, che ogni tanto presenta pezzi duri, ci si mette
un’eternità: scendiamo faccia a monte, come i gamberi.
Mamma mia quanto dura questa discesa! E
che caldo! La giacca messa in cima me la devo togliere o sublimo: ma
che razza di primo gennaio è questo?! Scendendo per ultimo resto
indietro, non vedo più ne Riccardo ne Mattia che stanno già
traversando a lato della vedretta. Finalmente sono giù sul conoide,
fiuuu, perché questa parete al sole mi faceva paura da un po’.
A ritroso la strada di stamani, quel
pendio ripido a fianco dell’ultima lingua della vedretta, ma ora la
possiamo quasi correre, fino a tornare al masso della pausa di
stamane. Spogliarello (che caldo!) e mangiata da nababbi. Ora sì che
possiamo dividerci il Mars di vetta di tradizione, ridere, scherzare
e stringerci la mano. Mattia poi è particolarmente contento dopo i
due tentativi passati stavolta è andata bene!
Invece che seguire la dorsale di
stamani, stiamo nel vallone, trovando una neve migliore: accidenti, a
saperlo stamani! Un’altra visita al cannone e poi ancora giù, ma
sprofondando sempre più in mezzo a questi massi-squalo che non
vedono l’ora di catturarti una caviglia.
Dalla cima al rifugio in 2h: il
viceversa era 4h30. Ora ci godiamo il sole caldo, a petto nudo,
mangiando, bevendo (tanto!) e preparando gli zaini per tornare giù,
dentro i quali non c’è più cibo.
Dopo 1h di svacco meglio ripartire
prima che ci si addormenti o che si resti ingabbiati in questo
piccolo paradiso, la discesa è ancora lunga e noiosa. Almeno
prendiamo il sentiero giusto, i ramponi aiutano a superare quei
tratti di ghiaccio tra il pendio del rifugio e l’ingresso nella
valle ombreggiata, e siamo più veloci.
Anche al Ponte dello Zucal (dopo che
Riccardo ha perso una rondella della bacchetta che gentilmente un
ragazzo ci riporterà all’auto mentre ci cambiamo) il ghiaccio non
fa più paura, lo mordiamo coi denti delle nostre protesi ai piedi,
tie! Ma dov’è la macchina?!?!
Sembra infinita, forestale, carareccia,
ecco Pian della Sega! Una panchina dalla quale ammirare la cima del
Care Alto lassù e laggiù: uno stanco Riccardo che ci si siede e “Ma
porca miseria eravamo la?! Ma quanto è lontano?! Ma più!” eh sì,
mai più, te l’ho già sentito dire altre volte!
Qui altre foto.
Qui report.
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